Saranno dieci anni, o qualcosa di più, che lo scultore italiano il Iginio Balderi, pendolare tra Milano e Amsterdam per via della moglie olandese, mi venne a trovare a Colonia, per farmi conoscere il suo lavoro. Balderi è stato allievo e assistente del mio amico Marino Marini, senza peraltro essere diventato un seguace del maestro. Mi mostrò allora foto di “Colonne” bianche, o, più precisamente: di un'intera selva di “Colonne”. Balderi le chiamava “Colonne”, ma per questi snelli solidi slanciati, con una tacca trasversale nel terzo superiore, si sarebbero potute proporre anche metafore diverse da quelle architettoniche, per esempio: “Alberi” o “tronchi pietrificati” o “Asparagi giganti”, cosa, del resto, avvenuta in parecchi testi riguardanti le sue mostre.
Quindi le “Colonne” di Balderi sono polisense. Si possono associare all'architettura e alla natura. Questo fatto distingue le “Colonne” balderiane negli anni 1960-65 da un contemporaneo fenomeno artistico, con il quale, in un'analisi provvisoria, sono state messe in relazione, ossia dalla scultura americana degli anni sessanta, forse pensando alla Minimal Art. Le “Colonne” di Balderi - simili tra loro, ma non identiche - mi fecero, al primo incontro, una tale impressione, che, come membro del consiglio della “documenta”, le proposi per la terza edizione di questa rassegna. Purtroppo il mio suggerimento cade nel vuoto, privando la “documenta” 1964 di un interessante aspetto nella sua sezione ”Immagine e scultura nello spazio”, che stilisticamente andrebbe situato tra Hans Arp e Joannis Avramidis.
Non ricordo questo, per dire che avevo ragione, ma per sottolineare che ritenevo (e tuttora ritengo) le “Colonne” di Iginio Balderi un contributo molto personale alla scultura della seconda metà di questo secolo, perché, nella loro uniformità si staccavano velocemente dalla scultura sfilacciata dell'informale, senza rinunciare, d'altra parte, a rimandare, al là di se stesse, a contenuti di significato.
Negli anni successivi visitai un paio di volte lo studio milanese di Balderi in via Ausonio e presi dimestichezza con la sua evoluzione e il suo processo di lavoro, che per anni è dedicato a un determinato problema formale. Gli anni dal 1960 al 1965 rappresentano il quinquennio delle “Colonne”. Tra il 1967 e il 1973 furono creati -ulteriore sviluppo delle colonne - “I Penati”, nonché variazioni del principio formale in essi assunto, il quale, al di là della costruzione interna, si avvicinava più al mondo rappresentativo dell'organico che a quello dell'archittetonico.
Le “Colonne” erano di gesso, un materiale poco appariscente e precario. I penati e i loro congiunti, come “Atreo” ed “Eos” sono invece di fibra vetrosa, così pure l'enorme “Tavola degli dei”, che nell'estate del 1973 ho ammirato, in splendida collocazione, alle balze di Volterra. Sinceramente, già alla mia prima visita nello studio milanese, mi sono meravigliato che il Iginio Balderi, dopo gli esordi col gesso (alla quale scelta naturalmente potrebbero aver contribuito anche ragioni diverse, non-artistiche), si rivolgesse alla plastica. Era l'attualità del materiale, la sua non-prevenutezza, ad affascinarlo? Una volta Balderi mi mostrò nel suo studio milanese una scultura di marmo, scalpellata e levigata con le proprie mani. Apparteneva la sfera dei “Penati”, che a un tempo mi riuscivano familiari e nuovi, come discendenti più rigorosi del “Kaspar” di Hans Arp. Apparentemente, Balderi non ammetteva importanza questo pezzo, mentre io mi rammaricavo che non eseguisse in marmo altre sue variazioni di “Colonne” e “Penati”.
Forse il mio era un debole per questo materiale nobile e pregiato, per il virtuosismo della sua lavorazione? Solo più tardi compresi le riserve di Balderi, quando vidi il paesaggio di casa sua, intorno a Pietrasanta, e visitai il laboratorio marmistico paterno, e avvertii come osessione del materiale l'onnipresenza del marmo, dagli innumerevoli monumenti fino ai muretti degli orti, e salii con Balderi alle vecchie cave di marmo del Monte Altissimo, avvolto dai ronzanti cavi di segheria, dove tutto, all'infuori del cielo sopra di noi, era di marmo... Su questo sfondo mi sembrava di poter capire meglio la scelta di Balderi in favore delle materie plastiche.
Ma non è lecito motivare solo biograficamente la sua scelta.
Evidentemente Balderi ha optato per la plastica anche perché la graduale concrezione di una forma nei successivi strati di plastica non soltanto gli consentiva una maggiore libertà artistica, ma altresì una maggiore capacità realizzativa. Lo scultore non può prescindere dalla realizzazione. I grandi formati sono difficili da trasportare, mettere in mostra costa somme rilevanti. E questo fatto ha senza dubbio il suo peso. Ma soprattutto: le materie plastiche danno risultati diversi del marmo.
Anche la plastica è bianca, ma opaca.
Riflette la luce, senza pregiudizio della precisione delle forme.
Anche nelle grandi dimensioni e sculture rimangono leggeri e stabili, e ciò tornò opportuno a proposito delle “Sette variazioni su un tema”, del 1970-73. Come avrebbe potuto realizzare diversamente Balderi gli equilibrismi di forma ovulari sulle cuspidi di poliedri?
Circa gli annessi e connessi del mestiere di scultore, Balderi si pronuncia poco o niente. I pochi chiarimenti che lui stesso dà del suo lavoro, a mia conoscenza, riguardano problemi delle forme e delle rappresentazioni da esse incarnate.
Lì si può leggere, per esempio, che dopo dieci anni di ricerche formali è pervenuto a due forme primarie: l'uovo e il poliedro. Le forme primarie non si “inventano”.
Questo, Balderi lo sa benissimo, e non lo pretende di certo. Piuttosto, è tornato da forme complicate a forme semplici, perché ha riconosciuto in esse i materiali di partenza per le sue variazioni, la possibilità di sviluppare con un minimo di forme un massimo di combinazioni di forme. Balderi ha scritto che ogni scultura è un simbolo della vita, che l'uomo rappresenta il simbolo più alto della vita. A questa confessione di scultore, in cui riecheggiano concetti delle origini della scultura moderna (per esempio, di Constantin Brancusi), vorrei aggiungere l'osservazione che le sculture di Balderi, nei blocchi prismatici, rappresentano anche l'antitesi del simbolo della vita.
Se nelle “Colonne” era lasciato ancora agli esegeti “leggere” la polivalenza di queste forme, dall'elemento architettonico al simbolo fallico e alle analogie vegetali, ora Balderi nelle “Sette variazioni su un tema” , con l'uovo e il poliedro, stabilisce lui stesso l'escursione della possibile interpretazione, mediante la confrontazione di forme organiche inorganiche.
Eduard Trier - 1974
Foto copertina catalogo: Enrico Cattaneo