Decima verifica in Collezione.Questa volta, la prima, per un artista che ci ha lasciato, Iginio Balderi. Ma poco Cambia. O forse la circostanza rende addirittura più stringente l'incontro tra i due lavori iniziali dello scultore di proprietà di Calderara e la ventina di sue opere portate a Vacciago dallo studio milanese, che consentono uno sguardo più ampio e comprensivo sulla sua attività. Evidenziando ancor più la profondità e la continuità della sintonia, di ispirazione, metodo e risultati, tra i due maestri, sul piano di un'arte in cui protagonista sia “non più la natura, non più l'uomo, ma la natura e l'uomo dimensionati nel bisogno della più assoluta sintesi”, portati “a quell'estremo limite di essenzialità nel quale finisce il ricordo per aver principio l'idea”, a quella “realtà”, in un “ordine” in cui “ il tempo perde il senso della sua misura per annullarsi nello spazio senza limite, nella luce senza sorgenti”, per usare parole di Calderara che già in un'altra di queste verifiche ci è capitato di citare, me che in questa occasione appaiono particolarmente calzanti. Ovviamente, in Balderi, con accenti suoi e non sovrapponibili a quelli di Calderara o di altri scultori da lui amati attivi su di un affine registro di sintesi significante oltre il contingente, da un Prantl a un Azuma.
Anche per tali ragioni, al di là del comune sopravvivere dell'artista nell'opera, la memoria di Balderi, uomo e scultore, e la sua presenza sono tutt'uno nelle opere qui raccolte, in quelle più remote come nelle più recenti: per il loro allontanarsi dalla frizione diretta col vissuto quotidiano verso coordinate spazio-temporali che lo dilatano e assolutizzano. Non per negarlo, ma per coglierne e fissarne l'essenza in forme archetipiche che il passato, anche più remoto, leghino al presente, fuori peraltro da qualsiasi archeologismo.
Nato nel 1934, Balderi si apre alla scultura accompagnato dal mitologismo fisico, e persino carnale, di Marino Marini, del quale fu alunno a Brera, come Azuma, risentendone, non diversamente da questi, nel primo uscire dalle esercitazioni accademiche. E' dal suo arcaismo che discendono i “Giocolieri” del 1959, l'anno del diploma, dei quali si espone qui una versione di misure minori, che tuttavia dà l'idea dello slancio in verticale di quella maggiore, alta 283 cm, nei quali lo scatto dei Miracoli del maestro è svolto in elevazione. Fino a prender forma di colonna, anticipando la preferenza per quel motivo architettonico carico di senso e di storia, a cui Balderi si dedicherà nel triennio successivo. Con insistenza, e andando già oltre la lezione di Marino, come colse subito Franco Russoli, introducendo nel 1963 la sua prima personale, nella Galleria Minima di Milano. “Ricordo le iniziali opere del giovane scultore alla scuola di Marino Marini – scriveva il grande critico e storico dell'arte, “suggestionato” da questi lavori -, il suo voler portare la piena adesione sensuale, fisica, alle forme anatomiche del modello verso una norma stilistica artigiana di tradizione carrarina (Iginio nacque a Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, vicino a Carrara, dove il padre aveva un “laboratorio” per la lavorazione del marmo), per ben valutare il suo impegno severo di darci, nel modo più estremamente diretto, l'immagine di un'insidia che di continuo corrode la sicurezza di un canone puro, che arricchisce così di inquietudini umane una troppo olimpica forma, la colonna, il simbolo di una perfezione perduta”.
Il fusto, più o meno liscio, di quelle “Colonne” - di cui una variante in vetroresina culminante una sfera tagliata, Omaggio a Fontana, come recita il titolo, è presente in Collezione- appare corroso nella parte alta, ferita, con la conseguenza di un vago aspetto antropomorfo, da un taglio orizzontale, anch'esso memore di Fontana, qui, in particolare, di quello coevo, e proprio nella scultura, delle Nature, punto di riferimento dichiarato di questa felice entrata in scena di Balderi: nel clima, proprio di quella congiuntura, di superamento dell'informale, ancora attivo nel materismo lievitante delle appena ricordate superfici superiori delle “Colonne”, nel contempo indirizzate alla riconquista d'una, sia pur nuova, determinatezza oggettiva, oltre che, va aggiunto, tese ad una dimensione arcaica auroralmente originaria, di intonazione totemica. Che, lasciata alle spalle quella situazione – quella, anche, della “conversione” di Calderara all'astrazione, e in cui Balderi trasse inoltre frutto dall'esempio di Milani – si evolve presto, subito dopo la metà del decennio, in forme levigate, esatte, come incontaminate. E' il momento di “Atreo” (1968), “Eos” (1969), “La carpa d'oro” (1969-1970), “La tavola degli dei” (1969-1973) , inaugurato nel 1967 da “Eptatlon” e da “I Penati” (della Collezione), esposti, ancora in esemplari in scala ridotta per le caratteristiche della sede espositiva, la casa di Calderara e i suo piccolo giardino. Opere tutte come distaccate in un'aura metafisica, intangibile, esaltata, nelle versioni originali in fibra di vetro, poi tradotte, con altre valenza, in bronzo, dal candore della materia, come già nella succitata Colonna “Omaggio a Fontana”, e potenziata dall'interazione modulare degli elementi. Ove il rapporto tra struttura e spazio, nella dinamica tra chiusure e aperture, già apparso nelle “Colonne”, trova una sedimentazione come raffreddata, funzionale alle intenzionalità evocative e di intensificazione dello spessore significante.
E' su tale linea, in cui si avverte la semplificazione brancusiana, più che quella sensuale e sfuggente di Arp (però anch'egli evocato da alcune opere di Iginio, dai “Penati” ad esempio, che ricordano, pur irrigidito, il “Kaspar” dello scultore tedesco), che fa il suo ingresso nel 1970 l'uovo, forma per eccellenza gravida di senso, a cui era ricorso lo stesso Fontana nelle “Fine di Dio”, che in dialettica con solidi geometrici dalla superficie piana si afferma in quel decennio col ruolo di protagonista nella ricerca di Balderi, Con siffatti elementi lo scultore organizza molteplici, e talora arditi, equilibri, come esemplarmente, nelle loro innumeri possibilità, si può vedere in “D1, 2, 3, 4, 5, 6, 7- Sette Variazioni di un tema” (in mostra tre Variazioni in metallo di una serie successiva), esposte nel 1974 in bianca fibra di vetro allo Stedelijk Museum di Amsterdam, e poi nel van Elsene Museum di Bruxelles e nel Lehmbruck Museum di Duisburg (Balderi è stato sempre un artista europeo, fin dall'inizio degli anni sessanta, quando studia per mesi prima a Parigi e poi ad Amsterdam).
Il titolo “Sette Variazioni du un tema” è, a dire il vero, riduttivo del significato di quelle opere, sembrando legittimare una lettura solo formale, limitante ed estranea alla scultura di Balderi. Che, in occasione di quelle esposizioni, ribadisce sì, descrittivamente, il rigore analitico delle sue “Variazioni”, affermando di essere arrivato “dopo dieci anni di ricerca sulle forme attraverso la scultura a due forme primarie: una è l'uovo che è una rotazione dell'ellisse e ha per sezione il cerchio, l'altra il prisma la cui sezione è il triangolo”, e di proporre, componendo “questi due elementi, sette possibilità di metterli insieme che sono sette sculture, sette sculture diverse anche se composte con gli stessi elementi”. Per poi però aggiungere che “ogni scultura è per me un simbolo misterioso della vita, un segno e una rappresentazione della esistenza umana sul nostro pianeta”, e che “l'uovo è una sfera - corpo celeste – messa in rotazione dentro un'ellisse – il movimento interno al suo sole – il suo viaggio, non una cosa fissa – statica – ma dinamica: è vita; l'uovo è il simbolo più alto della vita”. Di qui il “Sole”, del 1978, ove per l'ultima volta (tornerà solo, eccezionalmente, nel 1990 in “Esonartece II) troviamo l'uovo, centro e perno cosmico di numerosi elementi radianti, in ottone come il sole, chiusi in contenitori di plexiglas, a formare una sorta di corpo stellare.
Dell'anno seguente la “Spirale” che qui esponiamo, in marmo, materiale al quale, abbandonando definitivamente la fibra di vetro, Iginio torna, per le sue implicite, storiche qualità significanti, in aderenza alla forma-simbolo appunto, come l'ellisse, della spirale, da allora frequente nel suo lavoro. Anche come matrice e struttura di una serie di lavori intitolati alla Città, al quale l'artista si applicherà fino agli anni estremi della sua vita alzando delle costruzioni che nel fluire continuo della spirale crescono organicamente, in un'organizzazione conseguente di pieni e vuoti che fa pensare alle “forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni, dal “fondamento architettonico, non soltanto come costruzione di masse, ma in modo che il blocco scultoreo abbia in sé gli elementi architettonici dell'ambiente scultoreo in cui vive il soggetto”, come scriveva il maestro futurista. Al quale queste Città di Balderi rimandano nel tema medesimo, oltre che appunto nel complesso relazionarsi entro un avvitamento spiraliforme di volumi reali e virtuali, in un intreccio serrato di forme centripete e centrifughe, coinvolgente lo spazio esterno attraverso la proiezione del nucleo plastico e delle sue potenziali energie. Col risultato, tra l'altro, di proporre le riconquista d'una monumentalità non monumentale. Per dare, Balderi, diversamente da Boccioni, corpo non effimero al simbolo. Fino a riportare alla mente, anche proprio per il ricorso alla spirale, la “torre” del Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin e, all'indietro, persino il Progetto di Monumento del 1898-1900 di Obrist. Però, in Iginio, giungendo a proporsi, come nella “Città” qui presentata, collocata al sommo di una sottile colonna, “in soluzioni nuovamente totemiche (…), in un'estrema essenzialità”, come – l'ha pertinentemente osservato Enrico Crispolti - “ un nodo strutturale, un'utopia che sfugge al tempo condizionato, ponendosi quale assoluto segno d'un valore culturale archetipo”. Che tuttavia rimanda all'uomo, centro della città e dell'intera opera di Balderi, proposto nella sintesi rituale di “Esonartece III del 1993-1994 attraverso quattro calchi di piedi umani poggianti su di una base sulla quale è scolpita una spirale e congiunti lungo alti arti stilizzati ancora spiraliformi ad altrettanti calchi di mani che sorreggono in atto di offerta un corpo solido rotondo.
Testo di Luciano Caramel